Home Testimonianze Gli effetti delle armi chimiche (delle industrie europee) nel Kurdistan Iracheno
Gli effetti delle armi chimiche (delle industrie europee) nel Kurdistan Iracheno Stampa E-mail
In Iraq, a partire dal 1973-74, oltre 500.000 Curdi sono stati deportati in campi di concentramento nelle aree desertiche dell’Iraq meridionale, o concentrati in villaggi fortificati, controllati dall’esercito iracheno. La pulizia etnica perseguita dal regime di Saddam Hussein nei confronti dei Curdi, con esecuzioni sommarie, deportazioni forzate, fosse comuni, assunse nel 1987 carattere di ufficialità con l’operazione “Anfal”, termine che nel Corano significa “bottino”, “preda di guerra”: “ti interrogheranno riguardo al bottino, rispondi loro il bottino appartiene a Dio e all’apostolo...” (Corano, Sura VIII). Il saccheggio e lo sterminio sistematico del popolo curdo veniva così legittimato dal governo di Saddam come guerra agli infedeli, prede di una guerra santa. Nel corso di quelle operazioni oltre 5000 villaggi curdi sono stati rasi al suolo. Scompaiono almeno 250 mila persone, per lo più bambini sequestrati a scuola e abitanti dei villaggi.
Negli anni settanta ed Ottanta l'Occidente vendeva mine ed armi chimiche a Saddam Hussein, per poi dichiarare ufficialmente l’etnocidio dei Curdi un affare di politica interna irachena, dove non sarebbe stato corretto intervenire...

L’operazione più devastante, compiuta nel marzo del 1988, non rientrava ufficialmente nella campagna “Anfal”; era infatti un’operazione militare della guerra Iraq-Iran, ed aveva come obiettivo una città di 45 mila abitanti, Halabja, situata al confine con l’ Iran in territorio curdo-iracheno.
La mattina del 16 marzo 1988 gli aerei iracheni colpirono a più riprese la cittadina con un cocktail micidiale di armi chimiche - napalm e fosforo bianco - mai prima d’allora impiegate contro civili.
Si stima che un numero di persone compreso tra 5000 e 7000 morì all’istante.

 Migliaia di sopravvissuti fuggirono tra le montagne alla volta dell’Iran. Gli iracheni continuarono ad usare armi chimiche contro i Curdi il 26 e 27 agosto dello stesso anno, per colpire la gente che fuggiva: almeno 70 mila Curdi avevano raggiunto i territori turchi per sottrarsi al crudele inseguimento delle truppe irachene. I primi Curdi che sperimentarono i bombardamenti al napalm furono i bambini della scuola elementare di Qaladije un villaggio a nord di Sulaimaniyah, nell'aprile del 1974.

Da allora nessuna équipe medica, irachena, europea o americana, nessuna agenzia internazionale, ha valutato gli effetti a breve termine o le conseguenze a lungo termine che hanno avuto i bombardamenti chimici. Gwynne Roberts, un regista inglese che documentò nel 1988 il massacro chimico è ritornato ad Halabja nel 1998 , a dieci anni dal bombardamento insieme ad una genetista inglese, Christine Gosden.



Ecco il reportage di Christine Gosden International Herald Tribune del 12 Marzo 1998.
Il presente articolo è stato adattato da un articolo più lungo pubblicato dal Washington Post. (Trad. Iole Pinto)

Il 16 Marzo del 1988, Halabja, una città curda del nord Iraq di 45.000 abitanti, fu sottoposta, nel corso di un’azione militare irachena, al più massiccio bombardamento con armi chimiche che sia mai stato usato nei confronti di civili.
Gli agenti chimici usati erano un “cocktail” di iprite (dannosa per la pelle, gli occhi e le membrane dell’apparato respiratorio) e di gas asfissianti nervini denominati 'sarin', 'tabun' e 'VX'. I veleni chimici impregnarono la pelle e gli abiti della gente, ne attaccarono le vie respiratorie e gli occhi, e contaminarono acqua e cibo. Molte persone caddero uccise all’istante, lì dove si trovavano in quel momento, prime vittime dell’attacco. Si stima che morirono così circa 5000 persone. Alcuni vennero trasportati immediatamente negli Stati Uniti, in Europa o in Iran per essere curati. La maggior parte fece presto poi ritorno ad Halabja.
Da allora nessuna équipe medica, irachena, europea o americana, nessuna agenzia internazionale, ha valutato gli effetti a breve termine o le conseguenze a lungo termine che hanno avuto i bombardamenti chimici. Gwynne Roberts, un regista, girò nel 1988 un film sull’attacco chimico che fu premiato. Il film si intitolava “Venti di Morte” (“The Winds of Death”). Vidi questo film, che mi colpì profondamente.
Gwynne è ritornato ad Halabja lo scorso anno, ed è rimasto impressionato dalla quantità di sopravvissuti che, già a prima vista, apparivano in pessime condizioni di salute. Non riusciva a capire come mai nessuno avesse mai cercato di verificare cosa stesse accadendo a quelle persone. Mi ha convinto che avrei dovuto fare qualcosa. Perché mai una donna, docente di genetica, ha voluto intraprendere un viaggio come questo? Sono andata per imparare ed aiutare.
Era la prima volta che una terribile mistura di armi chimiche veniva impiegata contro una così vasta popolazione civile. Volevo vedere la natura e l’ entità dei problemi che aveva la gente, ed ero sconcertata che in dieci anni dall’attacco nessuno, incluse le principali organizzazioni umanitarie, avessero visitato Halabja per determinare esattamente gli effetti che avevano avuto quei bombardamenti.
Ero preoccupata di possibili effetti, quali malformazioni congenite, sterilità e cancri, indotti non solo in donne e bambini, ma nell’intera popolazione. Temevo anche che potessero esservi altri effetti gravi a lungo termine, come cecità e danni neurologici, per i quali non esiste nessuna terapia conosciuta. Quello che ho trovato è stato di gran lunga peggiore di quanto avessi mai potuto immaginare. Le sostanze chimiche avevano seriamente danneggiato il sistema nervoso e respiratorio e gli occhi della gente. Molti erano diventati ciechi. Frequenti le malattie della pelle, con gravi piaghe che spesso degenerano in cancri della pelle.
Lavorando insieme ai medici del posto, ho confrontato l’incidenza di sterilità, malformazioni congenite e cancri (includendo cancri alla pelle, al cranio, collo, sistema respiratorio, tratto gastrointestinale, seno e tumori infantili) tra coloro che allora si trovavano ad Halabja con quella di una popolazione di una città situata nella stessa regione e non interessata dai bombardamenti chimici.
Ho trovato che la frequenza di queste patologie risultava ad Halabja tre o quattro volte maggiore, anche a distanza di dieci anni dall’attacco. Un numero sempre crescente di bambini muore ogni anno di leucemie e linfomi. I tumori tendono a manifestarsi ad Halabja in popolazioni molto più giovani che altrove, e molte persone hanno tumori aggressivi, per cui i tassi di mortalità sono molto alti. Nella regione non è disponibile né chemioterapia né radioterapia. Ho verificato anche che la chirurgia pediatrica è del tutto carente, e sarebbe fondamentale per poter intervenire sui principali difetti cardiaci congeniti, labbro leporino, gola lupina e sulle altre gravi malformazioni dei bambini. Questo significa che ad Halabja stanno morendo di malattie cardiache bambini che potrebbero essere operati e con buona probabilità sopravvivere se vivessero in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. E’ stato per me molto penoso vedere volti di bei bambini sfigurati da labbra leporine o palato lupino, sapendo che esperti chirurghi in Europa e nel nord America correggono ogni giorno questi difetti.
Quasi in ogni strada, in ogni casa, in ogni reparto ospedaliero si assiste ogni giorno alla tragedia umana delle conseguenze neuropsichiatriche dei bombardamenti chimici. La gente piange ed ha gravi disturbi depressivi. Le tendenze suicide sono palesemente evidenti. Spesso i chirurghi si trovano a dover asportare proiettili dal corpo di persone che hanno tentato il suicidio.
Molti hanno danni neurologici o effetti neuromuscolari a lungo termine. Molte persone non possono permettersi nemmeno i più economici trattamenti terapeutici o farmaci, e perciò sono riluttanti a recarsi all’ospedale. Al momento ad Halabja non esistono terapie efficaci per nessuna di queste patologie, anche nel caso di trattamenti 'salva-vita'.
Il fatto che si riscontrino gravi malformazioni congenite di origine genetica in bambini nati anni dopo l'attacco chimico indica che gli effetti di queste sostanze chimiche vengono trasmessi alle generazioni successive.
La presenza di alto tasso di aborti, di morti infantili e di sterilità significa che in questa comunità la vita non può più riprodursi. Gli abitanti speravano che dopo l'attacco avrebbero potuto ricostruire le famiglie e le comunità distrutte. L'impossibilità della ricostruzione ha portato la gente alla disperazione. Ne ha frantumato la vita e le speranze.
Un sopravvissuto racconta di essersi rifugiato in uno scantinato con circa un centinaio di altre persone, tutte morte durante i bombardamenti. I sopravvissuti non solo devono confrontarsi con il ricordo dei loro cari morti all'improvviso tra le loro braccia, ma devono anche sopportare malattie dolorose che colpiscono loro stessi, amici e parenti. Molti hanno più d'un problema grave, come malattie respiratorie, nervose, dermatologiche, degli occhi, tumori e figli disabili con malformazioni congenite, deficit mentali, paralisi cerebrale e sindrome di Down.
Dieci anni dopo l'attacco chimico, la gente sta soffrendo di molteplici effetti, tutti attribuibili a danni a lungo termine del DNA.
Il giorno prima del nostro arrivo era stato lanciato un appello radiofonico in cui si chiedeva alle persone con problemi di salute di recarsi in ospedale per una ricognizione. Il primo giorno si sono presentate 700 persone, di cui 495 avevano due o più gravi problemi di salute. Ci siamo imbattuti in casi estremamente tristi.
La popolazione di Halabja necessita di aiuti immediati. Sono necessari specialisti (come chirurghi pediatrici), apparecchiature e farmaci. Ancor più essenziale provvedere a bisogni primari, come riscaldamento, acqua pulita e sforzarsi di salvaguardare la popolazione da ulteriori attacchi futuri.
Dobbiamo renderci conto che le conoscenze mediche e scientifiche di cui disponiamo su quali siano i metodi più adeguati di trattamento delle vittime di un attacco chimico di tale portata sono davvero esigue. E' necessario ascoltare, pensare e valutare con grande attenzione, poiché molte di queste persone sono state esposte a strane combinazioni di gas tossici. Molti presentano quadri clinici mai visti o documentati prima d'ora.
Di fatto non abbiamo alcuna conoscenza su come trattare i problemi derivanti da armi così devastanti, con conseguenze di tale atrocità mai riscontrate in passato.
Le immagini che girarono il mondo dopo l'attacco del 1988, diffuse dai giornali e dalle televisioni, erano raccapriccianti. Una foto riproduceva un padre che moriva stringendo a sé due gemelli neonati, nel tentativo di far loro da scudo con il corpo. Una statua che riproduce quell’immagine è all'ingresso di Halabja. Non è la tradizionale statua di un eroe che si erge fiero, scolpito in pietra o bronzo a rappresentare il successo ed il trionfo dell'uomo, ma è l'immagine di un uomo prostrato ed agonizzante, che muore nell'atto di proteggere i suoi bambini.
Un profondo brivido mi ha attraversato quando sono entrata nella città ed ho visto quella statua..E’ stato come una nube tossica psicologica che si è calata su di me, difficile da scacciare. Si è fatta più intensa quando ho incontrato la gente, ho ascoltato le loro storie ed ho visto l'entità degli effetti patologici a lungo termine.
Le immagini terribili della gente di Halabja e la loro situazione ritornano di notte nei miei incubi e riappaiono di giorno nei miei pensieri. Forse il persistere di questi vividi ricordi mi è di monito che ora l'impegno più importante deve essere quello di tentare di portare aiuto a questa gente, con tutte le nostre forze.
 
© 2008-2011 Associazione Iniziative di Solidarietà ODV SI-Italia